Prometeo

di Emanuele Volpeprometeo

Il grande cerchio, dissi loro, il grande cerchio era sopra di me. Sono ormai due lune che non mi fanno uscire; da quando ho raccontato loro cosa ho vissuto. Il mio nome è Alik ed ero un cacciatore. Non ho mai creduto agli sciamani, nemmeno a quello che è da noi da quando ero un neonato. Sono sempre stato estraneo a quei riti, quelle strane iniziazioni. Quando diventai adulto, quando diventai un cacciatore, fui il primo a tornare dalla selva con un grosso cervo, trasportato a spalla. Avevo dodici anni ed ero di gran lunga più grande e furbo degli altri prescelti, che avevano tutti sedici anni. Mio padre mi spinse a provare, poco prima di morire, ma lo sciamano disse che anche se il tempo per me scorreva più in fretta, non ero pronto. Mi accettò, ma mi tagliò i lunghi capelli di chi sarebbe diventato cacciatore.
L’ultima battuta di caccia è durata due giorni e due notti. Abbiamo inseguito una famiglia di cervi fino al fiume e lì abbiamo dormito. A dir la verità gli altri hanno dormito, io no. Io ho osservato tutto quello che accadeva e stanco del loro russare mi sono allontanato. Oltre la radura, oltre i grandi alberi. È lì che il grande cerchio mi ha trovato. Emetteva la luce della luna, la emetteva sopra di me, girando in tondo come fanno le mosche, ma senza fare rumore. Dal cerchio sono scesi dei selvaggi, alti due volte un uomo, con il collo lungo come gli uccelli del lago. In tre hanno camminato verso di me. Ebbi paura, come quando mio padre mi sgridava da ragazzo, poi una strana sensazione di calma mi entrò nelle ossa.
Uno di loro mi toccò il viso e mi disse qualcosa, come un sibilo, io persi i sensi. Ricordai quando da bambino battevo mio padre nella corsa, e il giorno in cui lo uccise un grande lupo. Non ricordo nient’altro se non che al risveglio i miei compagni mi guardavano in silenzio.
Il marchio nero, il marchio nero, dissero. Mi sentivo bruciare il viso. Mi legarono ancora intontito e mi portarono al villaggio. Lo sciamano disse che avevo il morbo, che il marchio nero sul mio volto era un segno. Gli parlai degli dei che erano arrivati dal cielo, dissi che gli dei non erano acqua, fuoco e terra, ma erano reali. Con braccia e mani, corpi grigi come serpenti. I bambini piansero e le madri coprirono loro le orecchie. Dissero che era una blasfemia. Lo sciamano era l’unico in contatto con gli dei, e nessuno di noi doveva mettere in discussione questo.
Mi hanno chiuso nella gabbia dove tenevamo le provviste, e l’hanno rinforzata con altri rami, quasi a impedirmi di far uscire anche solo una mano per chiedere cibo, quasi a nascondermi dalla vista di tutti. Mi hanno dato da mangiare come ai cuccioli di lupo, lanciandomi il cibo da lontano, e io pian piano sono diventato un animale.
Questa notte gli dei sono tornati, hanno bruciato tutto, hanno arso vivi i bambini, le donne, e lo sciamano sul palo più alto del villaggio, con un fuoco blu e verde come quello delle prime fiamme quando cadono i fulmini.
Hanno ucciso tutti, tranne me, si sono avvicinati alla gabbia e il loro capo mi  ha ripetuto le parole che aveva detto il giorno del nostro primo incontro, con lo stesso gracidio, mentre io ero rintanato in un angolo, come un cucciolo.
– Tu sì, loro no.

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